di Aldo Lo Presti
Molti tra gli artisti delle ultime (e penultime) generazioni hanno cercato ossessivamente un ‘gesto’, un ‘segno’, una ‘poetica’ che li potesse distinguere dagli altri. Senza riuscirci. O meglio: riuscendovi una sola volta (o poco più), trasformando lo slancio innovativo dei loro esordi in un decorativismo noioso e sterile, buono soltanto a riempire cornici o pareti che meglio sarebbe stato lasciare al loro migliore intonaco. Che meraviglia, quindi, quando ci accorgiamo che alcune biografie si nutrono, in modo ostinato e contrario, di curiosità, riuscendo a superare qualche ‘confine’ di troppo o fin troppo tenace, offrendo paesaggi umani mai sazi di colore e passione. Paesaggi che fanno capolino nelle gallerie d’arte (e negli spazi musealizzati) in attesa di entrare a far parte di ben altri confini, quelli propriamente nostri e perciò costruiti nell’intima necessità di compiacere tutte le nostre aspettative di Bellezza. Per la quale Bellezza si è disposti persino (persino!) a sacrificare parte dei nostri patrimoni, trasformando una semplice negoziazione strumentale in una debita appropriazione, riconoscendovi (senza particolari mediazioni, né critiche né autoriali, del resto del tutto inutili, specie le prime) uno stato di grazia irresistibile. Così, e non altrimenti, in ogni svirgolata di pennello e colore, in tutti gli intarsi, nelle singole cotture d’argilla, ritroviamo, ma come trasfigurate, le cose di tutti i giorni, quelle stesse cose attraverso le quali gli artisti (ma solo quelli bravi però) trasfigurano la realtà senza ripudiarla.
Com’è il caso, ad esempio, di Giuliano Baglioni, capace di vedere il mondo nella sua affascinante concretezza, scorgendone i riflessi nei sassi di fiume (con i loro reticoli millenari di segni e sfumature grigie e bluastre), nelle pieghe narrative delle carte veline, nei rossi violenti di Caravaggio e nel Nero assoluto e puro delle sue opere più recenti, capaci di sintetizzare interamente un percorso di vita e di ispirazione che merita senza dubbio d’essere apprezzato in tutte le sue più diverse e seducenti sfaccettature.
Così, dopo il Rosso e il Nero del Caravaggio, oggi è nella Luce assorbita dallo stesso Nero che Baglioni ha trovato un’altra dimensione espressiva, facendone materia pittorica primaria a partire dai supporti utilizzati (nel caso di specie, dei semplici pannelli di legno grezzo lasciato alla sua ruvidità), concependo la pittura sia come pretesto per inseguire la propria curiosità, sia per catalizzare quella degli osservatori (facendone, cioè, degli artisti dell’ascolto). Un Nero capace, oggi, di accogliere, con materna dolcezza e paterna scabrosità materica, una singolare abilità di sincero operatore d’arte, maturata nel corso di una lunga carriera in cui l’artista orvietano ha saputo mettere a frutto un’invidiabile manualità, sempre declamando un’inconfondibile (e mai uguale a se stessa) poesia colorata.
Una poesia che ha trovato un suo nuovo, specialissimo modo di intrecciare (o isolare) moltissimi ed attraenti dettagli di paesaggi umani (i suoi, naturalmente, e naturalmente blu, il colore dell’ottimismo per eccellenza) inserendoli a mosaico in tutte le formelle negrofumo (che negano la luce soltanto quel tanto che basta per essere ricomposta dalla fantasia ed immaginazione di chi guarda) che vanno a comporre i suoi manufatti e la cui scoperta (e decifrazione) contribuisce sensibilmente a migliorare, potenziandoli, i nostri (e solo nostri) dettagli. Una testimonianza di coerenza e fedeltà all’Arte, questa di Baglioni, che, allestimento dopo allestimento, si dimostra capace di scartare di lato, trasformando le idee in realtà, e viceversa, distillando, da ogni grappolo della propria vigna, un vino sincero e corposo come sono tutti i vini tipicamente Neri.